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Cinema futuro (608): “Gli amici del bar Margherita” 29/03/2009

Posted by Antonio Genna in Cinema e TV, Cinema futuro, Interviste, Video e trailer.
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Cinema futuro - Il cinema del prossimo week-end“Gli amici del bar Margherita”

Uscita in Italia: 3 aprile 2009
Distribuzione: 01 Distribution

gliamicidelbarmargheritaTitolo originale: “Gli amici del bar Margherita”
Genere: commedia
Regia: Pupi Avati
Sceneggiatura: Pupi Avati
Musiche: Lucio Dalla
Sito web ufficiale (Italia): cliccate qui
Cast: Diego Abatantuono, Laura Chiatti, Fabio De Luigi, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Luisa Ranieri, Pierpaolo Zizzi, Gianni Cavina, Katia Ricciarelli, Claudio Botosso, Gianni Ippoliti, Bob Messini, Nino Giustini

La trama in breve…
Bologna, 1954. Taddeo (Pierpaolo Zizzi), un ragazzo di 18 anni, sogna di diventare un frequentatore del mitico Bar Margherita che si trova propriO sotto i portici davanti a casa sua. Con uno stratagemma, il giovane diventa l’autista personale di Al (Diego Abatantuono), l’uomo più carismatico e più misterioso del quartiere.
Attraverso la sua protezione, Taddeo riuscirà ad essere testimone delle avventure di Bep (Neri Marcorè), innamorato della entreneuse Marcella (Laura Chiatti); delle peripezie di Gian (Fabio De Luigi), aspirante cantante e vittima di uno scherzo atroce; delle follie di Manuelo (Luigi Lo Cascio), ladruncolo e sessuofobo; delle cattiverie di Zanchi (Claudio Botosso), l’inventore delle cravatte con l’elastico; delle stranezze di Sarti (Gianni Ippoliti), vestito giorno e notte nel suo smoking e campione di ballo.
Per non parlare del contesto dove Taddeo vive con mamma (Katia Ricciarelli) circuita dal medico di famiglia e il nonno (Gianni Cavina) che perde invece la testa per una prosperosa maestra di pianoforte (Luisa Ranieri). Ma alla fine, Taddeo che tutti chiamavano “Coso” ce la farà ad essere considerato uno del Bar Margherita.

Gli eroi sciocchi
di Pupi Avati

Amo  troppo  il  cinema  per non  farlo  più  possibile,  con  caparbietà   e insistenza.
Il cinema ha pervaso di sé  l’intera nostra esistenza (intendo quella mia e   di  mio   fratello)   permettendoci   di   farlo   con   la   continuità   che   ci segnala tra  i più prolifici. Questa continuità la si alimenta soprattutto con   nuovi   stimoli,     nuove   suggestioni,   con   la   necessità   di   essere condotti al  termine di ogni  vicenda sempre dall’altra parte del  mondo. In un altrove.
Così oggi    spalanco le finestre di  quel  tetro appartamento di  via San Vitale dove  il  papà  di  Giovanna ha  vissuto  la  sua  dolorosa  vicenda umana   e   la   luce   piena   del   giorno   che   inonda   l’appartamento   è accompagnata da una nuova colonna sonora  fatta dal   rombo delle utilitarie  e  delle  canzonette  della  neonata San Remo  dell’incombente boom. Siamo   nel  pieno degli anni Cinquanta e  io sedicenne somiglio nella sfrontatezza delle mie aspettative a quell’Italia in cui nessuno si prenda  la  briga  di  richiamarmi  alla  ragionevolezza.  Ho  l’età  dei  miei sogni che è l’età della città in cui vivo e della sua gente.  Tutti  insieme condividiamo le stesse attese nei riguardi di uno sconfinato futuro. Perché   non   rammentare   quegli   anni   se   è   sufficiente   traversare   la strada per  raggiungere  il Bar Margherita, quel santuario nel quale  la società   dei   maschi,   che   teneva   ancora   asservita   la   donna   in qualsivoglia suo ruolo, regnava impunemente?
Perché  non alzare   la  saracinesca  di  quel   locale    nel  quale   la mia memoria  ha   trattenuto   intatti,   preservati   dalle   ingiurie   del   tempo, quell’insieme  straordinario di  eroi  sciocchi,  che  tuttavia  furono per gran parte della mia giovinezza i modelli ai quali mi ispirai?
Perché   non   ridare   vita   al   padrone   del   bar,   quel  Walter   che   tutti chiamavano Water esasperandolo,  o  quell’Al  che  consumava  le  notti fra  lasagne  e  puttane  o  quel  Manuelo  che  bendato,  senza  toccare  il
freno, traversò via Murri su un’Ardea Lancia o quel Gian che partì col padre per cantare a   San Remo o quel Bep che non si presentò al suo matrimonio per fuggire con una entreneuse dell’Esedra? Perché non  restituire alla  loro grandezza  quel  Mentos che si  bevve un’intera bottiglia di cognac o quel Sarti  che truffava  preti e suore o
quel  Pus  afflitto  da una  costellazione  di  foruncoli o  quel  Zanchi che inventò la prima  cravatta con l’elastico?
Perché non celebrare quel  tempo e quella pattuglia di eroi ai quali era sufficiente   la  messa   in  commercio   degli   occhiali  K,   con  i   quali   si vedevano le donne nude, per dare senso ad un’intera estate?
E   soprattutto   perché   non   celebrare   questi   nostri   quarant’anni   di cinema sorridendo di noi stessi, della nostra superlativa ingenuità?

Intervista a Pupi Avati: i sogni, gli scherzi e le avventure

Che   cosa   le   stava   a   cuore   raccontare   nel   film  “Gli   amici   del   Bar  Margherita”?
“Questo  film deriva da una necessità di raccontare  la mia città ancora una  volta al  passato ma attraverso una  luminosità ed una gioiosità dell’insieme   che   contraddicessero   totalmente   il   clima   struggente   e doloroso del mio film precedente, “Il papà di Giovanna”.
Riandando indietro anche solo di  una cinquantina   di anni ho  ritrovato nella  Bologna   degli   anni   ’50,   soprattutto   nella   cultura   dei   bar,   un atteggiamento   nell’interpretazione   della   vita   da   parte   dei   giovani   di allora   che   oggi   sarebbe   considerato   arcaico   e   deplorevole.   Nel   bar Margherita   di   via   Saragozza   –   come   io   verificavo   quotidianamente trovandosi dirimpetto a casa mia –  i ragazzi di allora investivano  la loro creatività nel  più  assoluto disimpegno e  nel   totale  disinteresse degli adulti verso di loro. Ho messo insieme così una serie di suggestioni, che non   riguardano   solo   me,   ma   un   momento   del   Paese   in   cui   le adolescenze erano spensierate e sperperate con disinvoltura e  lo stupire e il divertire gli altri  era un modo per dare senso alla vita. Le prime due pagine del  lungo racconto che ho dedicato a quei  personaggi così sopra le   righe   e   a   quel   locale   specificano   in modo   dettagliato,   addirittura puntiglioso, le dodici regole  comportamentali alle quali ognuno di loro doveva attenersi  e che riassumevano tutto  intero un mondo psicologico e   culturale  di  una   gioventù  felicemente   irresponsabile   che   oggi  può apparirci   incomprensibile e risibile,  dove regnava  il  maschilismo e  le donne   erano   viste   solo   come   elemento   perturbativo,   oppure direttamente come mogli. Oggi  è cambiato tutto. È cambiato il modo di essere giovani, ho la sensazione che si faccia di tutto per privare i nostri ragazzi della speranza e del senso di attesa, per renderli rinunciatari e per consegnare  loro un mondo privo di prospettive,  dove non c’è spazio per i sogni.”
Partendo   dai   ricordi   reali   si   è   anche   abbandonato   al   piacere dell’invenzione?
“Quella  interpretazione  della  vita  così   ingenua  non  è  certamente  solo frutto della mia  fantasia.  È evidente che io abbia avvertito da subito la necessità di tenermi alla  larga da tutti quelli che sono gli stereotipi dei vari bar sport che il cinema ha già ampiamente illustrato.
Il mio bar Margherita è una sorta di Pantheon di campioni del  mondo dell’innocenza,  quel  mondo che  io adolescente guardavo aspirando  il prima possibile di entrarne a far parte. I suoi avventori furono  infatti gli eroi di quel tratto della mia vita e ancora un poco, se vado indietro nel tempo, lo sono rimasti. Mi è difficile oggi  poter circoscrivere quanto del vero bar ci sia in questo mio film e quanta parte invece sia frutto della mia   fantasia.  Quanto   insomma   io   abbia   detto   come   era   davvero   o quanto avrei voluto che fosse stato.”
Come ha scelto i suoi attori?
“Un’opportunità del   genere  mi  ha permesso di   ricorrere  ad attori  di famiglia   (Diego   Abatantuono,   Neri   Marcorè,   Gianni   Cavina,   Katia Ricciarelli, Claudio Botosso) e ad altri interpreti che mi incuriosivano da tempo ma con  i quali non avevo mai ancora  lavorato  (Luigi Lo Cascio, Fabio De Luigi, Laura Chiatti, Luisa Ranieri ed altri). Per ognuno di loro ho scritto un personaggio il più possibile aderente alle loro individualità e nel contempo “replica” di una porzione di quel microcosmo al quale ho tempo di ridare vita.”
Che cosa si racconta in scena?
“Nel 1954  l’Italia  viveva  il momento più  sfolgorante  e  illusorio del suo boom  economico,   dall’imporsi   della   televisione   al   lancio   delle   prime utilitarie, al Festival di Sanremo, arrivando all’opportunità di acquistare quei famosi occhiali K  attraverso  i quali era possibile  vedere  le donne nude. Nel baluginio di questo momento storico si intrecciano i sogni e le avventure  dei   clienti  del  bar  Margherita,  in un’alternanza di   scherzi ferocissimi che sempre e comunque l’amicizia sa rendere sopportabili.
Come  in ogni bar che si rispetti esisteva una gerarchia e così anche  lì c’era   un   leader   e   quello   di   quell’anno   era   soprannominato   Al (Abatantuono),   misterioso   e   carismatico   campione   di   biliardo   in costante   ed  invidiata   intimità   con  le   sognate   entraîneuse  del  night.
C’era  Manuelo  (Lo Cascio),     il  conte erotomane che viveva  di  sfide e trasgressioni,   come   il     paracadutarsi   dalla   Torre   degli   Asinelli   o attraversare  una  strada della  città  su  una Ardea Lancia,  bendato  e senza toccare il freno.
E ancora:  Bep  (Marcorè), un  tipo piuttosto imbranato con le donne  che si innamora perdutamente dell’  entraîneuse Marcella (Chiatti),  in realtà ingaggiata  dagli amici perché  lo  seduca  e  lo  salvi dal matrimonio  con una  ragazza  loro non  gradita;  Gian  (De  Luigi),  antennista aspirante cantante, il cui grande sogno è arrivare a Sanremo, che rimarrà vittima di  uno  scherzo  atroce;   l’inventore  della  cravatta  con  l’elastico,  Zanchi (Botosso), proprietario del cravattificio Harem, dove lavorano solo donne che vengono scelte  in base alla  loro avvenenza e Sarti  (Gianni Ippoliti) vestito giorno e notte con il suo smoking da campione di boogie-woogie.
E poi c’era il diciassettenne Taddeo (Pierpaolo Zizzi) – che viveva con  la madre   (Ricciarelli)   e   il   nonno  ultraottantenne   (Cavina),   quest’ultimo presto  conquistato   dalle grazie  di  una  sedicente procace maestra  di
pianoforte napoletana (Ranieri) disponibile per lezioni a domicilio un po’ troppo silenziose…”
Sia  in  apertura  di   racconto  che  in  chiusura  si  sottolinea  il   fatto  che  il  giovane protagonista del film, Taddeo, una volta  raggiunta  l’opportunità di fare  finalmente parte di quel  gruppo di  amici, nel momento  della  foto annuale  di  gruppo,  e  quindi  della  consacrazione  di  questa  amicizia,  si  autoescluda . Perché?
“Ho già premesso che  il Taddeo che osserva gli eroi del bar Margherita sono  io.  Che mio  è  quello  sguardo.  Se  alla  fine  di  un  così  ambizioso progetto (quello di diventare a mia volta uno di loro) mi faccio da parte, se preferisco non essere  incluso  in quella  foto ma piuttosto osservarla dall’esterno,  non  faccio   altro   che  metaforizzare   quello   che   fu  il  mio atteggiamento nei   riguardi  della mia  città,  della mia  gente,  dei  miei amici.   Quella   dozzina   di   passi   che   il   giovane   protagonista   fa   per affiancarsi a chi sta fotografando  il gruppo di amici non  è altro  che  il percorso che io mia volta ho compiuto quando, per narrare la mia città, mi   sono  trasferito qui  a Roma.  Ponendo  fra me e quei   luoghi   tanto amati uno spazio che mi permettesse di  dirli, o piuttosto di inventarli di nuovo, nella più piena libertà immaginabile.”

Trailer italiano:


Per consultare le uscite dell’ultimo week-end andate allo spazio “Al cinema…”, per gli incassi del box office, trailer e notizie dal mondo del cinema visitate lo spazio “Cinema Festival”.

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