Cinema futuro (886): “Donne senza uomini” 09/03/2010
Posted by Antonio Genna in Cinema e TV, Cinema futuro, Interviste, Video e trailer.trackback
“Donne senza uomini”
Uscita in Italia: venerdì 12 marzo 2010
Distribuzione: BIM
Titolo originale: “Zanan-e bedun-e mardan”
Genere: drammatico
Regia: Shirin Neshat, Shoja Azari
Sceneggiatura: Shirin Neshat, Shoja Azari (basato sul romanzo di Shahrnoush Parsipour)
Musiche: Ryûichi Sakamoto
Uscita in Francia: ancora inedito
Sito web ufficiale (Francia): nessuno
Sito web ufficiale (Italia): cliccate qui
Cast: Shabnam Toloui, Pegah Ferydoni, Arita Shahrzad, Mina Azarian, Orsolya Tóth
La trama in breve…
Il film, tratto da “Donne senza uomini”, romanzo realista e magico di Shahrnush Parsipur, è il primo lungometraggio dell’artista iraniana Shirin Neshat. Il film narra la storia delle vite intrecciate di quattro donne iraniane nell’estate del 1953, un periodo catastrofico nella storia iraniana, quando un colpo di stato guidato dagli americani e appoggiato dagli inglesi depose il Primo Ministro democraticamente eletto, Mohammad Mossadegh, e restaurò lo Shah al potere.
Nell’arco di alcuni giorni, quattro donne appartenenti a classi diverse della società iraniana si ritrovano insieme sullo sfondo dei tumulti politici e sociali. Fakhri, una donna di mezza età intrappolata in un matrimonio senza amore, deve fare i conti con i sentimenti che prova nei confronti di una vecchia fiamma che, di ritorno dall’America, è rientrata nella sua vita. Zarin, una giovane prostituta, cerca di fuggire quando si rende tragicamente conto che non riesce più a vedere i volti degli uomini. Munis, una giovane donna con una coscienza politica, deve resistere all’isolamento che le impone il fratello religioso tradizionalista, mentre l’amica Faezeh resta incurante dei disordini nelle strade e sogna soltanto di sposare il dispotico fratello di Munis.
Mentre i tumulti politici crescono nelle strade di Teheran, ognuna delle donne riesce a liberarsi dai propri vincoli. Munis partecipa attivamente alla lotta politica andando incontro alla propria morte. Fakhri spezza le catene del suo stagnante matrimonio, lasciando il marito e acquistando un mistico frutteto nei dintorni della città. Faezeh viene accompagnata nel giardino da Munis e lì affronta la sua ritrovata consapevolezza, mentre Zarin trova sollievo nella sua comunione con la terra. Ma è solo una questione di tempo prima che il mondo fuori dalle mura del giardino penetri nelle vite delle quattro donne, mentre la storia del loro paese prende un tragico corso.
Note di regia
WOMEN WITHOUT MEN descrive un momento fondamentale dell’estate del 1953, quando le speranze di una nazione furono soffocate dalle potenze straniere con un tragico golpe che portò alla Rivoluzione Islamica del 1979. A trent’anni di distanza, mentre vediamo giovani uomini e donne protestare nelle strade dell’Iran nonostante una spietata e brutale repressione, ci rendiamo conto, ancora una volta, che la lotta è viva e vegeta. Posso solo sperare che WOMEN WITHOUT MEN, un film in linea con la mia impostazione artistica globale e nomade, offra un piccolo contributo al vasto racconto della storia contemporanea dell’Iran, ricordandoci la voce di una nazione che fu messa a tacere nel 1953 da poteri interni ed esterni e che è tornata a levarsi con un tono assordante.
INTERVISTA A SHIRIN NESHAT
Lei è nata nel 1957, ma può descriverci l’impatto che il 16 agosto 1953 ebbe sui suoi familiari?
Quando nacqui io era diventato quasi tabù parlare apertamente del colpo di stato del 1953, quindi quasi non ricordo di aver mai sentito i miei familiari esprimere le loro opinioni e raccontare le loro esperienze. Scoprii in seguito che alcuni dei miei parenti stretti e dei miei amici erano simpatizzanti di Mossadegh ed ex-comunisti che non osavano parlare dell’argomento. Di fatto, immediatamente dopo il golpe, lo Shah assunse il controllo totale del paese, compreso l’esercito, e trasformò la società iraniana da una democrazia in una sorta di dittatura, monitorando rigorosamente i cittadini attraverso la Savak, la polizia segreta. Quindi era molto problematico criticare lo Shah, anche nelle riunioni conviviali in quanto poteva sempre esserci un agente Savak tra gli ospiti! Ciò nonostante, contro lo Shah e i suoi alleati stranieri, in particolare gli Stati Uniti, si sviluppò in tutto il paese un vasto gruppo studentesco di opposizione che alla fine scaturì nella Rivoluzione Islamica del 1979.
Il contesto della storia rappresenta un capitolo fondamentale nella politica mediorientale — il primo e ultimo periodo democratico in Iran — eppure oggi è quasi sconosciuto. Perché il 16 agosto 1953 è così dimenticato al di fuori del Medio Oriente?
Non so di preciso perché, ma ho la sensazione che solo dopo l’11 settembre l’opinione pubblica americana abbia sviluppato un’autentica curiosità e un genuino interesse per le culture e la storia islamiche e mediorientali. A quanto mi risulta, in tempi recenti, pochissimi studiosi o mezzi di informazione hanno fatto riferimento al colpo di stato del 1953 organizzato dalla CIA, che è stata direttamente responsabile della formazione della Rivoluzione Islamica. Sono convinta che sarebbe utile rivisitare la storia, in modo da chiarire determinati fatti, da comprendere i motivi profondi all’origine del conflitto tra occidente e mondo mussulmano e da offrire nuove prospettive, studiando per esempio come i mussulmani hanno subito il comportamento criminale di grandi imperi occidentali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Quali sono state le sue prime riflessioni leggendo il romanzo della Parsipur? Può raccontarci come ha scoperto il libro e come è nato il desiderio di trarne un film?
“Donne senza uomini” è un libro molto conosciuto in Iran e Shahrnush Parsipur è senza dubbio una delle scrittrici iraniane più celebri. Quindi ho iniziato a conoscere i suoi romanzi da giovane e sono rimasta molto affascinata dalla sua immaginazione e dallo stile surreale della sua scrittura che si presta a trasposizioni cinematografiche di forte impatto visivo.
Ma solo nel 2002, quando ho provato un forte desiderio di realizzare un lungometraggio e mi sono messa a cercare la storia giusta, un mio amico docente, il Professor Hamid Dabashi della Columbia University, ha riportato alla mia attenzione questo romanzo. Ben presto mi sono persuasa che “Donne senza uomini” era la storia giusta per me. Naviga tra le complesse problematiche delle diverse realtà sociali, politiche, religiose e storiche dell’Iran e tuttavia sviluppa temi profondi, emozionali, filosofici, personali e universali che trascendono qualunque concetto di tempo e spazio. Inoltre sono rimasta incantata dalla natura poetica del romanzo e dall’uso dei simbolismi e delle metafore. Per esempio, il giardino in cui si rifugiano le donne funziona come un luogo di “esilio”, tema molto toccante e sentito da tanti iraniani.
È diventata amica di Shahrnush Parsipur? Può descriverci la vostra collaborazione e dirci come le sue opere hanno influito sul suo lavoro di artista?
Appena ho deciso di dedicarmi a questo progetto, ho iniziato a cercarla. Ho scoperto che viveva nel nord della California e sono andata a conoscerla. A partire da quel primo incontro, è diventata una forza trainante della mia vita, sia attraverso i suoi scritti, sia come donna che ha subito più sofferenze di chiunque io conosca: anni di prigionia, la separazione dal figlio, la povertà, la malattia. Eppure Shahrnush resta una delle persone più positive e ottimiste che io abbia mai incontrato. Sono rimasta particolarmente toccata quando ha accettato un ruolo nel film e penso che abbia interpretato magnificamente la tenutaria del bordello nella storia di Zarin.
Come ha affrontato la trasformazione del romanzo in sceneggiatura?
Sapevo che sarebbe stata una grande sfida soprattutto perché la storia segue simultaneamente le vicende di cinque protagoniste, ognuna delle quali è assolutamente unica nella sua natura, nelle sue aspirazioni e nel rappresentare una precisa classe sociale ed economica. Alcuni personaggi del romanzo sono molto surreali e danno un sapore di fiaba alla narrazione; per esempio, Mahdokht, la donna che non riesce a gestire la sua umanità e finisce col piantare se stessa per diventare un albero. Alla fine abbiamo deciso di eliminare dalla sceneggiatura questo personaggio. Come vedrete nel film, Munis e Zarin hanno un temperamento magico, mentre Faezeh e Fakhri restano molto pragmatiche. Inoltre, nel romanzo della Parsipur, la dimensione politica è citata solo come sfondo alle vicende delle protagoniste. Io invece ho deciso di sviluppare la narrazione enfatizzando la crisi storica e politica del periodo in cui gli americani organizzarono il colpo di stato che rovesciò il governo di Mossadegh. E mi sono spinta al punto di trasformare Munis, una delle protagoniste del film, in un’attivista politica. Quindi attraverso Munis, seguiamo gli sviluppi politici del paese.
Ovviamente non ha potuto girare il film in Iran. Dove lo ha girato?
Abbiamo girato il film a Casablanca, in Marocco, soprattutto perché ci siamo resi conto che Casablanca assomigliava meravigliosamente alla Teheran degli anni ’50. Avendo lavorato spesso in Marocco in passato, ho sviluppato ottimi rapporti di lavoro con l’industria cinematografica e in generale con i marocchini. Il problema principale è stato riuscire a ricreare Teheran a Casablanca!
Come è stata accolta in Iran la sua serie di fotografie “Women of Allah” (“Donne di Allah”) e come pensa che reagirà il pubblico iraniano al film?
La serie “Women of Allah” non è mai stata esposta pubblicamente in Iran e persino le stampe di riproduzione hanno sollevato molte controversie. Diversi funzionari l’hanno considerata sovversiva e l’hanno criticata, pur non comprendendone del tutto il significato e l’orientamento concettuale. Temo che WOMEN WITHOUT MEN non potrà essere distribuito in Iran, in parte a causa della mia carriera artistica, ma soprattutto a causa delle polemiche suscitate dal romanzo, che fu messo al bando subito dopo la pubblicazione, e ovviamente anche per via delle nudità che ogni tanto compaiono nel film.
Può parlarci delle immagini prevalentemente sature del film e spiegarci questa scelta? In particolare il contrasto netto tra i colori seppia delle scene che mostrano Teheran e le tessiture cromatiche più intense delle scene nel giardino. Qual è il suo intento nella scelta di una contrapposizione così forte tra i mondi “interiori” ed “esteriori”?
La questione del colore, o dell’assenza di colore, è sempre stata strettamente legata alla mia concezione artistica. Per esempio, nella serie “Women of Allah”, percepivo il rigore dei soggetti: i ritratti di quelle rivoluzionarie militanti si prestavano maggiormente a una raffigurazione in un crudo bianco e nero. Analogamente, nel caso di installazioni video come “Rapture” o “Turbulent”, dove la narrazione si sviluppa attorno al concetto degli “opposti”, il bianco e nero mi ha aiutata ad enfatizzare la dicotomia esistente tra i diversi generi sessuali nelle culture islamiche. Invece, nel caso del film WOMEN WITHOUT MEN, ho pensato che fosse interessante utilizzare colori saturi, soprattutto per rendere omaggio al periodo storico in cui il film è ambientato, gli anni ’50. Tuttavia, nel corso del film, lo schema cromatico cambia, dai toni vivaci del giardino, per esempio, si passa alle scene delle manifestazioni nelle strade in cui ho volutamente scaricato il colore per dare una sorta di qualità di repertorio alle immagini.
Come ha selezionato il cast del film? Ha scelto attrici professioniste o sconosciute?
La scelta del cast è stata una vera sfida, poiché sapevamo fin dall’inizio che sarebbe stato impossibile avere attori iraniani che vivono in Iran. La selezione era quindi limitata agli attori che vivono in Europa. A quel punto il problema è stato che gran parte degli iraniani di seconda generazione che vivono all’estero parlano farsi con accento straniero. Per questo motivo la selezione del cast è durata un anno e mezzo. Abbiamo lavorato con una splendida agenzia di casting austriaca che ha percorso l’Europa in lungo e in largo per proporci gli attori iraniani di maggior talento. Alla fine abbiamo scelto attrici principali che avevano già esperienze professionali, con l’eccezione di Arita Shahrzad che interpreta il ruolo di Fakhri. Arita è un’artista e una mia cara amica che per anni ha posato per le mie fotografie. Vorrei anche aggiungere che Orsi Toth, che interpreta il ruolo di Zarin, è un’attrice ungherese ed è stata la protagonista di “Delta”.[1]
È evidente che sul piano visivo l’immagine del chador la affascina. È un fascino puramente cinematografico o c’è qualcosa di più profondo?
Il mio interesse nei confronti del velo o del chador ha ragioni sia estetiche che metaforiche. Il velo è sempre stato un argomento complesso: alcuni lo considerano un emblema “esotico”, altri un simbolo di “repressione”, altri ancora un simbolo di “liberazione”. Tuttavia è solo in Occidente che suscita controversie. Nella realtà, il velo è quello che la maggior parte delle donne mussulmane indossa in pubblico e non ha necessariamente tante connotazioni politiche.
Poiché WOMEN WITHOUT MEN è ambientato negli anni ’50, quando le donne potevano scegliere se indossare o meno il velo, nel film vediamo alcune donne, come Munis e Faezeh, che sono sempre velate, e Fakhri, che è occidentalizzata e veste alla moda, che non si copre con il velo.
Il giardino è un luogo fondamentale sia nella cultura persiana, sia nella sua infanzia. Qual è per lei il significato primario del giardino nella sua cultura, nel suo lavoro e in questo film?
Il concetto di giardino occupa una posizione centrale nella letteratura mistica delle tradizioni persiana e islamica, per esempio nei poemi classici di Hafez, Khayyam e Rumi, dove si fa riferimento al giardino come allo spazio della “trascendenza spirituale”. Nella cultura iraniana, il giardino è anche stato considerato in termini politici, come luogo che evoca i concetti di “esilio”, “indipendenza” e “libertà”. Ho realizzato diversi lavori basati sull’utilizzo del video le cui tematiche esplorano il valore simbolico del giardino nella tradizione islamica. Per esempio, nella mia breve video installazione “Tooba”, il fulcro del filmato è l’albero di Tooba, un albero mitologico che è considerato un albero sacro, un “albero promesso” in paradiso. Avevo creato un giardino immaginario dove l’albero di Tooba era al centro e un gruppo di persone correva verso di esso per trovare rifugio. Sia in “Tooba” che in WOMEN WITHOUT MEN il giardino è rappresentato come un luogo di esilio, di rifugio, come un’oasi dove sentirsi protetti e al sicuro.
Estratto da
SHIRIN NESHAT: UN’INTERVISTA
da: ART IN AMERICA
di Eleanor Heartney
Negli ultimi 12 anni, l’artista iraniana Shirin Neshat (classe 1957) ha prodotto una serie di video installazioni liriche che trattano temi come la politica di genere, l’ autodeterminazione culturale e l’autorità della religione. Attingendo alle proprie esperienze di emigrata mediorientale e a concetti universali quali l’identità, il desiderio e l’isolamento sociale, queste opere sono state insignite di numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio Internazionale La Biennale di Venezia – Leone d’Oro nel 1999. Dal 2003, Shirin Neshat è impegnata in un ambizioso progetto video/cinematografico in due parti basato sul romanzo, pubblicato nel 1989, “Donne senza uomini” della scrittrice iraniana Shahrnush Parsipur.
I cinque singoli video del progetto – Mahdokht (2004), Zarin (2005), Munis (2008), Faezeh (2008) e Farokh Legha (2008) – ognuno dei quali incentrato su una delle protagoniste femminili del romanzo, sono stati recentemente assemblati in un’unica installazione in più stanze. Dopo il primo allestimento nel 2008 in Danimarca, al ARoS Aarhus Kunstmuseum, la complessa opera ha fatto tappa alla Galleria Faurschou di Pechino, e al Museo Nazionale di Arte Contemporanea di Atene. In autunno sarà esposta al Kulturhuset di Stoccolma e in altre sedi da confermare. Inoltre, quattro dei video sono stati proiettati alla Biennale d’Arte Contemporanea “Prospect. 1 New Orleans” lo scorso anno.
Mentre realizzava i video (finanziati in gran parte dalla Gladstone Gallery di New York e dalla Galerie Jérôme de Noirmont di Parigi), la Neshat ha anche lavorato al lungometraggio che uscirà prossimamente. Il film, che trae spunto sia dal romanzo che dai video, è caratterizzato da una narrazione onirica che intreccia le vicende personali delle protagoniste con le sollevazioni politiche nella Teheran del 1953, periodo in cui è ambientato il romanzo della Parsipur. (Allarmati dalla nazionalizzazione dei giacimenti petroliferi iraniani, gli agenti segreti britannici e americani quell’anno ordirono un colpo di stato per spodestare il Primo Ministro Mohammad Mossadegh e restaurare lo Shah.). Per realizzare i video e il film, Shirin Neshat ha lavorato a stretto contatto con la sua collaboratrice di sempre, Shoja Azari, che firma con lei la sceneggiatura finale. Il lungometraggio, girato in farsi a Casablanca, è interpretato prevalentemente da attori iraniani che vivono in Europa e comprende anche una narrazione fuori campo scritta dal poeta e critico d’arte Steven Henry Madoff.
Nell’arco di alcune settimane, ho parlato con Shirin Neshat della genesi del progetto “WOMEN WITHOUT MEN”. Abbiamo discusso del significato che ha per lei, della sfida rappresentata dalla trasposizione in immagini in movimento del romanzo della Parsipur, del difficile compito di trovare il giusto equilibrio tra elementi poetici e politici e delle diverse complessità che presentano video e pellicola.
ELEANOR HEARTNEY: Il film e le installazioni raccontano la storia in modi radicalmente diversi.
SN: Sì, sono due tipi di costruzione molto differenti. Le video installazioni sono state montate seguendo la logica della creazione di un gruppo di cinque narrazioni non lineari che offrono uno sguardo sulla natura di ognuno dei cinque personaggi e non intendono raccontare interamente le loro storie. L’idea era che il visitatore potesse passeggiare da una stanza all’altra ed essere in grado di ricomporre la storia alla fine. Quindi, in realtà, il visitatore diventa il montatore.
L’idea alla base della versione cinematografica era di realizzare una narrazione lineare, un film più o meno convenzionale, anche se in sintonia con la mia estetica visiva. La sfida più grande è stata trovare un modo per fondere il mio lessico artistico nel linguaggio cinematografico. Mi sono resa conto di aver sottovalutato le difficoltà insite nel ritmo, nello sviluppo della storia, nel dialogo e in molti altri elementi connessi. In un film non bisogna mai perdere il filo della storia e a volte devi scartare delle sequenze visive splendide perché distraggono troppo. La comprensione e la chiarezza sono essenziali, mentre in altre pratiche artistiche si incoraggia l’enigma e l’astrazione.
Alla fine ho imparato che la differenza fondamentale tra cinema e video arte è nello sviluppo del personaggio. In tutti i miei lavori passati, come i video Rapture [1999] e Passage [2001], ho trattato le raffigurazioni umane in modo scultoreo, privandole di temperamento e identità. Erano semplici figure iconiche. Con questo film, ho dovuto imparare a costruire i personaggi, a penetrare nei loro mondi e nelle loro mentalità, ed è stata un’esperienza del tutto nuova per me. Ho iniziato ad apprezzare registi come Bergman che riesce a tenerti inchiodato alla poltrona per due ore, mostrandoti a volte solo due personaggi in una stanza.
EH: Come riassumerebbe il tema del libro?
SN: È una storia profondamente filosofica. Racconta di cinque donne in fuga da un turbolento passato che scoprono che le loro vite convergono misteriosamente in un giardino in campagna. Il giardino diventa un rifugio, un luogo di esilio, dove possono staccarsi dal mondo esterno. Queste donne hanno una cosa in comune: il coraggio di prendere in mano il proprio destino. Alcuni personaggi sono ritratti in modo molto realistico, come Fakhri, una donna sulla cinquantina che vuole ricominciare daccapo la sua vita, e Faezeh, che desidera avere una famiglia normale, un sogno interrotto quando viene violentata. Altri personaggi sono tratteggiati in modo più surreale, come Munis, che si suicida e trova la libertà attraverso la morte, e Zarin, una prostituta che inizia a vedere i suoi clienti letteralmente senza volto.
Il film segue in modo analogo il viaggio che ogni donna intraprende lasciando Teheran per andare nel giardino. Una volta lì si sentono realizzate e al sicuro. Insieme creano una comunità utopistica, finché una di loro non si stanca e apre i cancelli del giardino ad altri. È evidente che Shahrnush Parsipur allude al Giardino dell’Eden.
EH:. Si può sostenere che la Parsipur, vivendo in Iran, abbia dovuto esprimere in modo piuttosto indiretto i suoi pensieri sul ruolo delle donne e della religione. Lei, invece, avrebbe potuto fare un film più dichiaratamente politico. Perché ha mantenuto così tanti elementi fantastici?
SN: Nelle culture dove le popolazioni lottano contro un pesante controllo sociale, il realismo magico è una tendenza naturale. Per gli iraniani, che hanno subito una dittatura dopo l’altra, il linguaggio poetico-metaforico è un modo per esprimere tutto quello che nella realtà non è consentito. Naturalmente, oggi, il governo è in grado di comprendere bene l’arte e la letteratura sovversive. Quindi, anche se è ambientato nel 1953, il romanzo della Parsipur è considerato molto problematico dall’attuale governo islamico, sensibile ai sottointesi religiosi e sessuali del libro. Personalmente, sento che il realismo magico mi è consono dal momento che mi sento a mio agio con il surrealismo, non solo come strategia per evitare l’ovvietà, ma anche come mezzo per creare un’arte che trascenda le specificità del tempo e del luogo.
ELEANOR HEARTNEY ha recentemente pubblicato Art & Today (Phaidon, 2008).
[1] N.d.T. Film di Kornél Mundruczó, in concorso a Cannes nel 2008, dove ha vinto il Premio Fipresci.
Trailer italiano:
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