Dispersi d’estate (21) – Una docufiction sulla scena musicale egiziana pre-rivoluzione 21/08/2011
Posted by Antonio Genna in Cinema e TV, Dispersi d'estate, Film, Video e trailer.trackback
Ogni anno nel mondo vengono prodotti circa 25 mila film. In Italia ne arrivano a malapena 500. Gli altri si disperdono nei buchi neri della distribuzione. Hideout.it da anni si occupa di recuperare il buono dei dispersi con rassegne, un sito, un festival e il libro “Dispersi. Guida ai film che non vi fanno vedere”. Nell’indolenza dell’estate, un buon film rinfresca più di un ghiacciolo, perché un disperso al giorno toglie l’afa di torno…
Una docufiction sulla scena musicale egiziana pre-rivoluzione
All’inizio doveva essere un documentario, ma poi la fiction è entrata preponderante in Microphone, trasformandolo in una cartina tornasole per comprendere l’incombente rivoluzione (che poi c’è stata) in Egitto, attraverso i musicisti underground di Alessandria, visti da un emigrante di ritorno.
Titolo: “Microphone”
Regia: Ahmad Abdalla
Sceneggiatura: Ahmad Abdalla
Fotografia: Tarek Hefni
Montaggio: Hisham Saqr
Musica: Massar Erbari, Soot Fel Zahma, Ayman Asfour, Shadi El Garf,
Interpreti principali: Khaled Abol Naga, Menna Shalabi, Yosra El Lozy, Hany Adel
Produzione: Mohamed Hefzy, Khaled Abol Naga, Hisham Saqr
Origine: Egitto, 2010
Durata: 120′
Colore
Recensione di Eugenio Peralta, apparsa originariamente qui
Tornato ad Alessandria dopo anni negli Stati Uniti, Khaled non riesce a ricostruire un rapporto con il padre e l’ex fidanzata, ma si appassiona alla musica, ai graffiti e alla cultura underground, diventando amico di molti ragazzi del movimento e aiutandoli a organizzare un grande concerto.
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Si fa presto a dire “rivoluzione”. Il film di Ahmad Abdalla, girato nel 2010, non ha ovviamente niente a che fare con i tumulti anti-Mubarak, eppure aiuta più di mille documentari a capire le cause e le ragioni del movimento che negli scorsi mesi ha aperto una ferita insanabile nel regime egiziano e in tutta la politica mondiale; perché a volte il senso della storia collettiva lo si avverte molto meglio in un racconto corale, sia pure di fiction, che non attraverso un’analisi teorica.
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Niente documentari, si è detto, ed è proprio questa la mossa vincente dell’autore di Microphone: il regista, infatti, era partito proprio per girare un documentario sull’ambiente della musica underground di Alessandria e, come lui stesso ha dichiarato, circa l’80% degli oltre 45 personaggi rappresentati nel film sono persone reali, che interpretano semplicemente se stesse. Ma la scelta di virare verso la fiction paga, innanzitutto perchérende appassionante e coinvolgente la pellicola dotandola di una trama (per quanto esile) e della tensione verso un obiettivo; in secondo luogo perché introducendo la figura di Khaled, tornato in patria dopo anni di lavoro all’estero, l’autore permette di “scoprire” la realtà dell’Egitto di oggi con gli occhi di un osservatore al tempo stesso estraneo e intimamente congiunto al mondo che lo accoglie. Anche la conversazione del tutto slegata dal contesto con la sua donna di un tempo, che Khaled ricorda attraverso una serie di flashback, è chiaramente finalizzata a fornire una chiave interpretativa (mai però troppo esplicita e invasiva) delle immagini che scorrono sullo schermo. Malgrado tutto questo, l’impronta originale dell’opera non è stata cancellata: uno dei personaggi principali è un giovane che, per realizzare il suo saggio di fine anno, intervista e riprende con la sua telecamera i protagonisti della scena musicale cittadina. Un vero e proprio “film nel film” che riprende il progetto originale del regista e, in qualche modo, anticipa anche il ruolo fondamentale svolto dai video amatoriali nel corso della rivolta: tra le immagini riprese c’è, infatti, anche il pestaggio di un giovane ambulante abusivo da parte della polizia.
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Il film colpisce dunque per la sua messa in scena estremamente efficace, ma non si deve pensare che questo metta in ombra i contenuti, tutti di grande ricchezza e attualità: la diffusione di una nuova cultura popolare legata ai graffiti, allo skateboard e alla vita di strada, lo scollamento tra genitori e figli (immortalato nell’ostinato silenzio del padre di Khaled), l’ipocrisia del potere che premia soltanto chi non va controcorrente, e naturalmente la musica. Tra le fonti di ispirazione dell’opera è stato citato il sorprendente No One Knows about Persian Cats di Bahman Ghobadi, Gran Premio della Giuria a Cannes nel 2009; modello al quale il regista stesso ha dichiarato di preferire Crossing the Bridge di Fatih Akin. Ma il paragone più azzeccato, benché irriverente, è forse quello con Nashville: non certo a livello stilistico né di denuncia, ma per la capacità di farsi compiuto specchio di un’opera e raccontare in un affresco corale la vita di un’intera generazione. Qualità che sono valse al film, per il momento, un premio prestigioso come il Tanit d’or a Cartagine.
Trailer originale:
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